Oggi si terrà il terzo e ultimo appuntamento per il ciclo di conferenze “LA VIOLENZA NAZISTA DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE”, organizzato dall’ISBREC con il Comune di Belluno per il 70°anniversario della Liberazione.
La Professoressa Adriana Lotto, una delle più grandi studiose della provincia di Belluno, per l’occasione condurrà la conferenza intitolata “Donne e violenza”, analizzando questo dramma sociale che, purtroppo, occupa ancora oggi gran parte della cronaca quotidiana. L’incontro si terrà presso l’Istituto di Istruzione Superiore “T. Catullo” alle ore 15.30.
Noi l’abbiamo voluta intervistare e condividiamo con voi la nostra chiacchierata su questo tema che troppo spesso viene ignorato.
1. La sua conferenza sarà centrata sui momenti cruciali della violenza sulle donne nell’arco del ‘900, e in particolare nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Come si è avvicinata a questo argomento?
Ho cominciato ad occuparmi di storia delle donne agli inizi degli anni Novanta, nell’ambito di alcuni convegni sulla Resistenza. Qualche anno più tardi, assieme a Bruna Bianchi e a Emilia Magnanini dell’Università di Venezia, ho dato vita, dirigendola per quasi dieci anni, alla rivista telematica DEP (Deportate, Esuli e Profughe) nell’ambito della quale mi sono occupata, data la mia conoscenza della storia e della lingua tedesche, delle donne rinchiuse nei campi di concentramento, in particolare della specificità della violenza loro inferta. E da lì ho preso in esame altre forme di violenza come la tortura e lo stupro di massa, e quindi anche il tema della negazione dei diritti, della resistenza e della disobbedienza all’autorità, nonché la riflessione femminista sulla differenza sessuale.
2. La Seconda Guerra Mondiale rappresentò un momento di forte protagonismo per le donne: furono chiamate a interpretare ruoli inediti, a svolgere spesso compiti difficili, a reggere sulle loro spalle il peso della salvezza delle proprie famiglie. A suo parere questa “metamorfosi” portò anche qualche elemento positivo? Cos’ha da dire in proposito?
Uno dei temi a me cari è quello della cosiddetta “resistenza civile” o “senz’armi” che personalmente considero uno dei momenti in cui le donne sono uscite dal dominio del simbolico maschile e hanno tentato vie proprie, autonome, forti del loro sapere e di quello della loro madri. Pur non riuscendo, poi, a elaborare un linguaggio e una visione del mondo che traducesse quella loro straordinaria esperienza, hanno tuttavia gettato i semi di un modo diverso delle donne di stare al mondo che implica anche la questione dei diritti e della democrazia. Non si può chiedere la parità di genere, se questo significa accedere a istituzioni costitutivamente sessiste e omofobe come l’esercito, a circuiti consolidati di violenza che la presenza delle donne non mette certo in discussione. Anzi, bisognerebbe chiedersi se questa uguaglianza non sia in realtà una pari opportunità di uccidere, torturare, sottoporre a coercizione sessuale, come è successo ad Abu Ghraib.
3. Lei parla di quattro tipi di violenza: violenza subita, agita, assistita e rifiutata. Può farci un esempio per ognuna di queste?
Premesso che tutte queste forme di violenza devono essere lette alla luce della costruzione storico-sociale dei rapporti di genere, dentro e fuori del simbolico maschile, e che molto hanno a che fare con il tacito contratto sessuale cui le donne sono state sottoposte, la violenza subita, che è appunto sempre a sfondo sessuale, è quella ad esempio di cui furono vittime le partigiane o le mogli, le fidanzate o le sorelle di partigiani da parte dei repubblichini, ma anche quella inferta su spie dai partigiani stessi. In tempi più recenti lo stupro di massa delle donne bosniache. La violenza agita coinvolge per lo più le ausiliarie italiane della Banda Carità a Padova e Vicenza, ma anche le sorveglianti tedesche del Lager di Bolzano, e oggi le soldatesse di Abu Ghraib, le carceriere americane, le soldatesse curde che combattono l’Isis. La violenza assistita coinvolge chi guarda e non reagisce, quella rifiutata colui che la espunge dal proprio raggio d’azione, consentendone però a volte il dilagare, e infine quella rifiutata in nome di un altro agire che si sottragga a quella logica. Al di là di esempi e definizioni, credo che ciò che contraddistingue la violenza sulle donne è il razzismo e il sessismo ovvero l’idea della donna come essere inferiore e della donna in quanto tale, cioè altro dall’uomo, e quindi senza identità propria. Ciò che invece contraddistingue la violenza esercitata dalle donne è un’idea di parità che conduce all’imitazione, a essere cioè come gli uomini. Ciò che contaddistingue infine la violenza rifiutata è da un lato il ribadimento della propria soggezione che non crea empatia e solidarietà, dall’altro, al contrario, l’affrancamento della donna dal simbolico maschile e l’istintiva ricerca, che non necessariamente respinge l’uso della forza tout court, di modi risolutivi, ricerca che nel periodo considerato non si è però accompagnata, come ho detto sopra, allo sforzo di elaborare un proprio ordine simbolico come mediazione, cioè traduzione in discorsi e ideologie, di esperienze specifiche.
4. Parliamo dell’attualità. Da un’indagine Istat è emerso che il maggior numero di violenze avviene all’interno delle mura di casa. Ma questo come si sposa con la cronaca di tutti i giorni che indica come un’urgenza prioritaria la violenza ad opera di estranei?
Come ho detto, le donne sono state sottoposte a un tacito contratto sessuale per il quale le violenze dentro le mura domestiche si sono sempre, e continuano ad essere, consumate senza che le vittime vi si sottraggano denunciandole. Ogni violenza non è altro, come ha detto Emma Schiavon, che una ripetizione della ripetizione. Certo è che fa comodo parlare di altre violenze, quelle di cui si rendono responsabili estranei, meglio se extracomunitari. Il fatto è che ancora non si vuole guardare in faccia la realtà e cioè, in questo caso, che anche la famiglia può essere un’istituzione fondata sulla violenza psicologica e fisica, sulla coercizione e sulla sottomissione sessuale. Oggi tutto questo è più visibile perchè l’informazione ne dà conto, perchè le violenze sfociano spesso in barbari assassinii. E questo accade, io credo, perchè si è rotto il contratto sociale e nel disordine simbolico che ne è seguito abbiamo smarrito quello che Luisa Muraro chiama “il senso di un orientamento condiviso” così da lasciare campo libero agli eccessi.